L’Europa come un ring, con l’Italia ancora e sempre all’angolo.










Di Andrea Atzori

Si è consumato anche questo ennesimo, ultimo atto dell’amara tragedia della moneta unica europea, la cui sopravvivenza è appesa alle sorti dei paesi troppo esposti alla crisi economica ed alla speculazione finanziaria, a causa dell’alto debito sovrano. Credo che mai, come in questa circostanza, la soluzione del problema dipenda dalla serietà e dalla disposizione d’animo con cui lo si affronta. Ogni schieramento politico, finora, non ha fatto altro che tentare di strumentalizzare la situazione di crisi al fine esclusivo di desautorare e ridicolizzare l’avversario, ben sapendo che le ragioni ed i torti non sono sempre e solo da una parte. Anche perché, la nostra politica che pure è contrassegnata da un’estrema litigiosità e contrapposizione, ciò nonostante è però diventata un’amalgama informe in cui diventa impossibile distinguere tra le diverse appartenenze ideologiche, semplicemente perché queste ideologie non esistono più. Perché a queste si sono sostituiti gli interesse personali dell’uomo politico, che ha affermato la sua supremazia sul bene della comunità. Allora, ci rendiamo conto, alla fin fine, che la situazione italiana non cambia e non può cambiare solo per un’alternanza al potere tra le forze politiche. Il debito pubblico italiano risale come ben si sa, agli anni ottanta. Cioè a quelli del governo Craxi. Erano anche quelli della lotta finale tra i due  sistemi politici-economici e sociali che si contendevano le sorti del mondo intero. Cioè quello socialista e quello capitalista. La c.d. guerra fredda si stava concludendo con una vittoria decisiva e definitiva degli USA sull’Unione sovietica. Tutti sappiamo come si svolsero quegli avvenimenti così come nessuno, in buona fede potrà negare che il P.C.I. italiano costituiva, per la sua forza elettorale che ne faceva il più forte partito comunista dell’Europa occidentale, una spina nel fianco per l’esito di questo programma strategico americano dell’allora presidente Reagan.  La stessa opposizione feroce del governo americano al c.d. compromesso storico del presidente Aldo Moro, la cui tragica fine è da rapportare direttamente a questo suo tentativo di rendere governabile l’Italia attraverso un coinvolgimento dei comunisti nelle responsabilità di governo, è, altresì, una conferma chiara dell’approccio americano al problema costituito dalla c.d. anomalia italiana all’interno delle nazioni alleate del patto atlantico. La pioggia di milioni di dollari che in più tranche, il FMI erogò all’Italia sotto forma di prestiti, erano finalizzati a questo disegno di eliminare alla radice il problema costituito dalla massiccia presenza, all’interno della società italiana di un partito comunista che, non solo, condizionava, con la sua forza, gli equilibri politici all’interno del parlamento italiano, ma ne rendeva, addirittura, sempre più difficile il funzionamento, a causa della difficoltà di formare governi duraturi senza il suo fattivo appoggio. Il mondo occidentale era ben cosciente del fatto che la forza elettorale del P.C.I. era tutta fondata sulla classe sociale del proletariato, cioè dei nullatenenti, la cui ricchezza era solo quella della prole. Per questo motivo nei paesi poveri le ideologie socialiste trovano facile attecchimento. Un modo, quello più immediato, per eliminare questo ostacolo alla sconfitta del comunismo in Italia, era, ovviamente, quello di rendere possibile l’accesso della gran massa di poveri alla proprietà. Da sempre, il bene simbolo della proprietà privata è la casa e nei tempi moderni l’automobile. L’urgenza, in sostanza, era tutta nell’attrarre il proletariato dentro all’area della classe media, generalizzandone l’accesso alle proprietà mobiliari ed immobiliari ed anche a quello della cultura, provocandone quel classico imbarbarimento che constatiamo al giorno d’oggi. Il degrado in cui versa la scuola italiana, che dall’alto delle classifiche mondiali è precipitata alle ultime posizioni, è diretta conseguenza della sua massificazione. Purtroppo, dai cattivi propositi discendono sempre cattive azioni. Per cui fu anche questa mancanza di buona fede che animò queste operazioni di politica economica che impedì un vero e proprio risultato di mobilità ed osmosi sociale che avrebbe potuto favorire  il formarsi di una coscienza democratica matura, quale in Italia mai si è affermata e di cui, ancora si sente, fortemente, la mancanza. Il risultato è questo che stiamo sperimentando anche in questo scorcio di legislatura in cui da destra a sinistra, continuano a circolare gli attacchi e le accuse di assenza di rispetto per i principi su cui si fonda la nostra costituzione democratica. La vita politica è dilaniata dalle lotte incontenibili ed irrisolvibili dentro ad un civile discorso democratico tra opposti estremismi. Insomma, l’Italia rimarrà ancora per molto tempo caratterizzata dalla presenza di forze sociali e politiche inconciliabili, perché essa non sa uscire dalla morsa della facile, semplice e banale classificazione, duale, del mondo politico, tra fascismo e comunismo. Forse anche un retaggio del dogmatismo religioso di cui è impregnata ed è ostaggio tutta la dottrina filosofica nazionale. Per cui la semplice scomparsa dei partiti ad ispirazione comunista dalla scena politica italiana, non ha portato, però, la pace sociale auspicata a questo paese. Anche sul problema del debito pubblico, continua questa farsa di cattivo gusto che consiste nel non voler ammettere la verità. Il respingere, a tutti i costi, le responsabilità dei diversi schieramenti, che continuano a scaricarsele, vicendevolmente, tra loro, è una situazione non solo inaccettabile, ma assai pericolosa. Credo che la strada più corta per arrivare ad una soluzione sia, come sempre, quella della sincerità. Se si ammettesse che la causa del male è tutta, non solo nel modo con cui si è formato il debito, ma, in particolare, con quello con cui lo si è gestito, questi problemi, come per incanto, ne verrebbero dimezzati. Perché, appunto per essere sinceri, quella pioggia di miliardi, piovuti sulle nostre casse, non solo incrementarono la politica del mattone, ma, anche, quella della corruzione infinita che portò alla morte della prima repubblica. Dopo tangentopoli, ogni partito ha alimentato i suoi programmi politici, ad abundantiam, delle tantissime proposte di riforme economiche e sociali, poste solo sul tappetto ma mai attuate. Progetti che sono sorti facilmente, come funghi, ma privi di quella dovuta serietà di cui ogni trasformazione, specie se radicale, del sistema ha bisogno. In una Europa poi, nata apposta per alimentare confusione in questo settore, per il fatto che ogni governo nazionale ha come propria prerogativa quella di legiferare, tenendo conto delle esigenze e delle caratteristiche della propria comunità, non quelle di organizzazioni sovranazionali, od addirittura di altre nazioni, ancora, a tutti gli effetti, straniere, questo impegno di riformare modernamente l’intera struttura istituzionale, fatiscente ed obsoleta, del sistema sociale ed economico nazionale, anche se urgente, diventava, per forza di cose,  assai più complicato. Perché ciò che poteva andar bene per l’Europa, poteva non esserlo per l’Italia. Equivoco dovuto al fatto che il processo di unificazione europea è troppo lento ed , inoltre, finchè non sarà realizzato rimarrà nel limbo degli intenti, e dei buoni propositi, di cui, diceva il sommo poeta, Dante, ne son piene le fosse. Per questo motivo, come ho scritto nel titolo, l’Europa assomiglia più ad un ring, in cui i paesi membri, sotto la furia degli eventi, si scontrano nell’ottica della salvaguardia dei loro interessi nazionali, più che aiutarsi vicendevolmente. Quale può essere il senso di solidarietà di paesi che funzionano nei loro reciproci rapporti, alla stregua di organismi finanziari che agiscono, rigidamente, dentro alle regole giuridiche ed economiche dei finanziamenti bancari. Alla lunga, chi si avvanteggerà, in modo esclusivo, delle misure imposte ai governi deboli dell’Unione, saranno sempre e solo le grandi banche, in specie quelle tedesche e francesi. Infatti, la politica  di ricapitalizzazione delle banche a questo mira. Dare soldi alle banche che dovrà reinvestirli sotto forma di prestiti agli Stati. La, non sottile, differenza tra i finanziamenti alle banche e quelli agli Stati è che mentre le prime non sono tenute a restituire i capitali ottenuti dall’Unione, gli Stati indebitati, invece, lo saranno, rendendo con ciò, la propria posizione, ulteriormente grave.  Concedere fido ad un debitore pressochè insolvente, non significa, necessariamente dargli una mano, quanto, piuttosto, aiutarlo a sprofondare ancora di più. Questo equivoco consiste, appunto del fatto che l’Europa, pur non essendo una nazione ed essendo ben lungi dall’esserlo, pretende, però, di agire come tale.  Per quanto concerne il merito delle misure economiche proposte dal nostro governo all’UE, considero che esse si concretizzano nel taglio alle pensioni, che non solo non c’è stato, ma, anzi la situazione è, addirittura peggiorata, in confronto a quella attuale, ed in quelle mirate alla crescita economica. Lo spostare al 2026 il limite di età per il pensionamento di vecchiaia a 67 anni, significa peggiorare la situazione creata con la manovra d’estate,  che ha introdotto le nuove finestre d’uscita dal lavoro, spostate di 12 mesi e l’allungamento graduale dell’età pensionabile, di tre mesi ogni tre anni, in base ai parametri fissati dall’Istat, sulle aspettative di vita. Se riflettiamo sulla contraddittorietà della disposizione, derivante dal decreto Brunetta sulla pubblica amministrazione, che nega all’impiegato pubblico il diritto di andare in pensione di vecchiaia a 67 anni in base ad una sua unilaterale manifestazione di volontà, in deroga alla norma contenuta nella riforma delle pensioni introdotta dal governo Dini, che riconosceva a tutti i lavoratori il diritto di andare in pensione a 67, anziché 65 anni, ci possiamo rendere conto della mancanza di coerenza e di affidabilità di questa classe politica. La negata tutela dell’interesse individuale del lavoratore viene troppo spesso spacciata, in mala fede,  come tutela sindacale della classe operaia. E’ inevitabile la perdita di credibilità di tutta la classe politica e sindacale. Le conseguenze le pagano, come sempre, tutti i lavoratori. Perché come inevitabilmente, il governo si è visto costretto ad attaccare l’art.18 dello statuto del lavoratori, il c.d. licenziamento per giusta causa. Credo che introdurre una legge che vieti il licenziamento del lavoratore per raggiunti limiti di età, misura osteggiata dai sindacati e dai partiti, specie di sinistra, sarebbe stato più equo e solidale verso tutti, sia i lavoratori che lo Stato stesso. Pertanto, a mio modesto avviso, si deve dedurre che l’UE ha prestato il suo consenso alla manovra, non per questa insussistente  riforma della pensioni ma per la liberalizzazione nel settore del lavoro. Se questa innovazione epocale nel sistema delle assunzioni della manodopera nelle imprese, servisse, almeno, a limitare i danni prodotti alla politica italiana dallo strapotere sindacale, che è eguagliato solo da quello clericale, nel funzionamento del nostro apparato pubblico, ben venisse. Perché sono troppi decenni, ormai, che la nostra società è modellata e plasmata dalle sapienti mani di sindacalisti senza scrupoli. Tutta la pubblica amministrazione, specie la scuola, è preda dello strapotere di tutte le sigle sindacali. La classe dirigente, nel pubblico impiego, è formata, esclusivamente, da sindacalisti. Ma temo che non sarà così, che le speranze andranno deluse. Perché se è vero che le forze sindacali sono state, negli anni, un formidabile ostacolo all’introduzione di quelle riforme giuste, in grado di riportare alla normalità il funzionamento istituzionale del paese, è vero che anche la politica si è, troppo spesso, avvantaggiata della collusione dei sindacati per ottenere i suoi obiettivi.