Il governo Monti atteso alla prova delle riforme economiche e previdenziali indilazionabili.







Di Andrea Atzori.






Se la Germania corre da sola e torna al marco. Se il governo Monti viene accusato di nebulosità e lentezza. Se gli istituti bancari internazionali cominciano a pensare al dopo euro. Significa che Il crollo del sistema monetario europeo è un dato scontato, una realtà già in attesa, pronta dietro l’angolo!


Il duo Merkel-Sarkozy si è trasformato da strada  a doppio senso in un’altra a senso unico. Nel senso, cioè, che non pensano neppure più alla salvezza dell’Europa e della sua moneta unica, ma a quella delle loro rispettive nazioni. Il loro legame appare sempre più un’alleanza a parte, in cui l’Europa esplica solo un ruolo perturbatore, quello cioè, di un noioso problema da risolvere, non foss’altro che per le conseguenze negative che ne potrebbero derivare alle loro rispettive economie, qualora i paesi debitori venissero dichiarati, dai sistemi finanziari internazionali e dai mercati, ormai insolventi, cioè,  degni di alcuna credibilità e fiducia. Il mondo dell’informazione è pervaso, in modo martellante, da voci non confermate che si succedono sincronicamente, che non vogliono apparire come notizie certe, ma che già si capisce essere tali. La fretta, la frenesia che le accompagna ne sono un dato caratterizzante e significativo. Pare che questo asse c.d. Merkozy, stia diventando una specie di istituzione collaterale a quelle ufficiali UE, ed anzi, destinata ad infilare una strada sempre più in attrito, in scontro aperto, con queste. Il fossato che separa, ormai la Merkel dal presidente Barroso ne è un segnale assai evidente. La crisi economica mondiale e quella dell’euro in particolare ha posto l’UE dinanzi ad un bivio. In quanto ha avuto il potere di alzare i veli sulle sue contraddizioni. L’unione monetaria senza quella politica è solo un modo, uno strumento utile in periodo di vacche grasse, ma è destinato a sfaldarsi quando i tempi cambiano, trasformandole in magre. La Germania, la sua opinione pubblica tutta, non accetta l’idea che il debito pubblico dei paesi europei diventi un patrimonio comune. In quanto sarebbero i paesi ricchi, in primis la Germania a doverselo accollare, per renderlo sostenibile. Per questo il parlamento tedesco è, all’unanimità, contrario all’emissione dei c.d. eurobond, cioè titoli di Stato europei. Così come, in  questi giorni, la Merkel si sta opponendo recisamente all’idea che la BCE possa battere moneta. Insomma, la  Germania non accetta di mettere in crisi la sua economia florida ed il destino dei suoi cittadini. Nelle stanze dei bottoni dell’Unione Europea, si sta scatenando una guerra tra i leader nazionale , a cui gli organi europei non sono estranei,  in cui le pugnalate avvengono, rigorosamente, come nel rispetto rigido, di un copione ben studiato, sempre alle spalle.  Le voci misteriose di cui si parlava, dicono che il duo Merkozy, starebbe studiando un nuovo tipo di trattato europeo, in cui l’assunzione del patto di stabilità venga posto a perno centrale dell’Unione. Esso dovrebbe essere sottoposto, separatamente, alla firma di ciascun potenziale membro, seguendo l’esperienza del patto di Schenghen. Per intanto, i primi due a firmarlo sarebbero proprio loro, il famoso duo Merkozy, che balla sempre da solo. Una tale nullità di proposta, partorita ancora in corso di vigenza del trattato di Maastricht, è sufficiente a dare, da sola, la dimensione del valore e della serietà dell’impegno con cui questi paesi si sono avvicinati e coinvolti a quello che veniva definito dagli idealisti, come il grande sogno dell’unificazione nazionale europea. Ma c’è di più. Infatti, si da per certo che la Merkel, sotto la spinta dell’opinione pubblica tedesca, sia decisa ad uscire dall’Euro per tornare al Marco tedesco. In questo modo l’euro diventerebbe la moneta dei paesi poveri ed indebitati. La strategia pare evidente, essendo quella assai vantaggiosa per i paesi creditori. Francia e Germania, uscendo dall’euro, si liberebbero da quei pesi e legami che li condizionerebbero nel momento cruciale della crisi finanziaria in atto, non impedendo loro di passare immediatamente alla riscossione del conto da saldare nei confronti dei loro debitori. Non solo, ma renderebbe possibile evitare il crollo definitivo della moneta unica, e cioè il default dei paesi in crisi, spingendoli a sempre maggiori sacrifici economici, per far fronte ai loro debiti abissali, di cui le due potenze ricche hanno estremo bisogno per non cadere a loro volta nel baratro, a causa della loro forte esposizione. In quest’ottica si porrebbe sincronicamente funzionale, la proposta del FMI di erogare all’Italia un’ulteriore prestito di 600milioni di euro. Inoltre, queste infauste notizie si aggiungono a quelle secondo cui i principali istituti finanziari mondiali si starebbero preparando, attraverso un piano di indirizzi rivolti ad evitare il peggio, come la folle corsa agli sportelli delle banche,  a questo evento catastrofico del crollo dell’euro, in pratica già scontato. L’ascesa in picchiata dello spread e l’inarrestabile andamento negativo delle borse, anche in questi giorni immediatamente successivi alla formazione del nuovo governo, la cui compagine si sta appena oggi completando, ci fanno capire quanto gli organismi internazionali siano infidi ed infausti al nostro paese. Dietro l’apparente facciata degli elogi e complimenti per il nuovo premier, si nasconde la più fredda determinazione all’immediato perseguimento dei loro interessi economici e finanziari, dimenticandosi di tutti i vincoli derivanti dai trattati internazionali in tema di unione monetaria ed unificazione europea. La nostra classe dirigente, raggirata ed impotente,  sta facendo una figura indegna del paese che rappresenta. Per lunghissimi anni, abbiamo avuto al potere un premier tale solo di nome, ma, in realtà, isolato ed emarginato, chiuso nelle sue dimore a godere dei piaceri della tavola e delle belle donne, come gli antichi, più lussuriosi, imperatori romani, negli anni di maggiore decadenza morale di quel mondo. Il quotidiano londinese, New York Times,  giudica lenta l’azione del governo Monti, ed assai fumose le sue annunciate manovre economiche. Affermazioni ingiustificate ed avventate quanto la loro stessa troppa frettolosità. Il nostro premier risponde informando che il 5 dicembre è convocato un consiglio dei ministri per discutere dei provvedimenti da adottare. Pare che oltre alla reintroduzione dell’ICI e di una minipatrimoniale, una tantum, vi rientri anche l’attesa riforma delle pensioni. Sicuramente le prime misure vanno nel senso giusto, anche se con un  po’ di coraggio in più si sarebbe potuto fare anche meglio. La reintroduzione dell’ICI era scontata. Una minipatrimoniale è insufficiente, per di più una tantum. Le speranze maggiori erano riposte proprio nella forte tassazione dei grandi patrimoni. Proprio perché fu lo stesso premier ad affermare pubblicamente che, chi aveva meno dato doveva contribuire  più degli altri. Che chi aveva di più doveva anche concorrere più degli altri. Credo che una minipatrimoniale una tantum sia assolutamente insufficiente, e che non si rispettino, con ciò,  quei principi di equità a cui egli si è più volte richiamato. Per quanto riguarda la riforma delle pensioni, la considero abbastanza valida, anche se non si è colta in pieno l’occasione per introdurre quel principio generale per cui, in presenza delle condizioni fisiche necessarie, il lavoratore che voglia permanere la suo posto di lavoro, non può essere licenziato a qualunque età sia, se non di estrema vecchiaia. Comunque, per iniziare, i settant’anni, incentivati, possono anche andare bene. Nella consapevolezza che il lavoro sia dei giovani che dei vecchi è la prima se non l’unica fonte di ricchezza di cui una comunità nazionale si possa avvalere e vantare. Le pensioni di anzianità sparirebbero. L’età anagrafica, in presenza dei requisiti contributivi ancora richiesti per la pensione di vecchiaia, cioè vent’anni, verrebbe abbassata da 65 a 63 anni. E coloro che decidessero di permanere al lavoro oltre questa età, godrebbero di un’incentivo  che andrebbe ad incidere in modo percentuale sull’importo della pensione, in modo progressivo, in relazione all’età anagrafica di permanenza al lavoro. Si passerebbe dal 2% a 63 anni fino al 10% tra i 69 e 70 anni.  E’ una proposta già condivisa sia dai democratici che dalla CGIL, la cui approvazione è data quasi per scontata. A queste misure si associa il passaggio per tutti i lavoratori, dal sistema retributivo a quello contributivo. Scompare per sempre la differenza, introdotta dalla legge n.335 del 1995, di trattamento tra lavoratori che al 31-12-1995 avessero maturato almeno 18 anni di contributi, per i quali si continuava ad applicare il sistema retributivo, in base al quale, oltre all’ammontare dei contributi versati nel corso della vita lavorativa, si teneva conto anche della media delle retribuzioni degli ultimi dieci anni di lavoro, e lavoratori che fossero stati assunti dopo tale data, cioè a partire dal 1996, per i quali era stato introdotto il sistema contributivo di calcolo delle pensioni, in base al quale si deve tenere conto, solo del montante individuale dei contributi effettivamente versati, moltiplicato per il coefficiente di trasformazione, che tiene conto dell’età anagrafica del lavoratore. Per i lavoratori assunti prima del 31-12-1995, ma che a quella data non avessero maturato 18 anni di contributi, era previsto il c.d. sistema misto. Cioè, si applicava il retributivo per i contributi versati prima di quella data e il contributivo per quelli versati dopo. Con la riforma disegnata dal ministro Elsa Fornero, grande economista e giuslavorista, dell’università di Torino, questa diversità di trattamento tra lavoratori giovani ed anziani dovrà scomparire. Non più, pertanto, protezionismi per i vecchi lavoratori a discapito dei giovani. Infatti, il maggior onere derivante dalla normativa protezionista dei lavoratori anziani, ricadeva poi sulle giovani generazioni, chiamate a ripagare il maggior carico derivante al fondo previdenziale nazionale, dal trattamento di favore riservato ai protetti. Insomma, una riforma informata a principi di equità sociale.