L’insanabile conflitto di interessi immanente nella duplice veste dello Stato, in quanto legislatore e datore di lavoro.

Di Andrea Atzori
Le contraddizioni della classe politica italiana che, certi sprovveduti, ancora si affannano a distinguere se di destra o sinistra, sono infinite. Portando alla luce, facendo emergere, tutta l’ignoranza che regna sovrana sui palazzi del potere, in particolare quelli parlamentari. Ad esempio, il volere ancora e sempre accanirsi sui dipendenti pubblici, fin dalla pretesa di equiparare il rapporto di lavoro pubblico a quello privato.
 Basterebbe un poco di intelligenza media per capire che ciò che qualifica il rapporto di lavoro non è il tipo di attività svolta dal dipendente, ma la qualità giuridica del datore di lavoro. Al lavoratore subordinato non interessa della qualifica giuridica specifica, attribuita all’attività da lui svolta, ma, principalmente, dell’adeguatezza della retribuzione offerta in corrispettivo. Che gli effetti vantaggiosi e positivi del suo impegno lavorativo, vadano a beneficio dello Stato o di un singolo datore di lavoro privato, non lo arricchisce nè lo impoverisce. Ciò che decide e determina la qualifica pubblica o privata dell’attività professionale svolta dal dipendente, non è l’attività stessa ma la natura giuridica del datore di lavoro. 
 La stessa attività sarà pubblica o privata a seconda se venga eseguita a favore di un datore di lavoro pubblico o privato.In particolare, quale può essere la serietà di una contrattazione sindacale con un datore di lavoro che è anche depositario del potere legislativo? Accade, infatti, normalmente, che lo Stato, datore di lavoro, mentre si predispone alla contrattazione con le organizzazioni sindacali, sta già provvedendo a cambiare con legge, la normativa giuridica che regola la materia specifica su cui insorge quella vertenza sindacale. Insomma è vano accendere dispute con chi ha il potere di mettere a tacere qualsiasi disputa solo con il suo niet. 
Dove sta l’aspetto privatistico del rapporto di lavoro pubblico? Ad esempio, il trattamento diverso e deteriore riservato dallo Stato al dipendente pubblico, di cui è il datore di lavoro, con la riforma previdenziale. Il fatto che lo statale non possa, a domanda stare al lavoro fino a settant’anni come, invece, è concesso al dipendente privato, è una prova chiara ed evidente di violazione del principio di uguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge, art. 3 della Costituzione italiana. 
La dimensione della disparità di trattamento riservata al lavoratore pubblico, solo perchè pubblico è evidentissima. Lo Stato, datore di lavoro, ha commesso un abuso di potere, dal momento in cui si atteggia essere datore di lavoro in regime privatistico, nel momento stesso in cui sta, invece, macroscopicamente, violando quei principi costituzionali, per il semplice fatto che, proprio il carattere particolare del datore di lavoro pubblico, non del lavoratore dipendente, ha ispirato e spinto il legislatore costituente a riconoscere uno status particolare, ben definito, al pubblico impiegato.
 L’esigenza di impedire un abuso di potere che stava nella stessa situazione di fatto, nel rapporto particolare e caratteristico che lega i due soggetti. In verità è la stessa natura della lotta tra pubblico e privato, che integra una vera forma di follia a venire in considerazione, quando non si voglia mettere in discussione la forma di stato democratica e non farla degenerare nella tirannide. Ciò che sta invece, indiscutibilmente accadendo. 
Ecco perchè certi principi costituzionali fondamentali, possono essere tanto tranquillamente ed impunemente violati e distorti. La democrazia è una dea disarmata!