Russia e Usa dinanzi al baratro. L’accordo di Ginevra sull’Ucraina, non regge.


Di Andrea Atzori


Dopo l’annessione della Crimea, le rivendicazioni territoriali della Russia, fondate sulle caratteristiche russofone delle popolazioni delle regioni orientali dell’Ucraina, com’era facile presumere, non si sarebbero fermate.

La responsabilità per la loro sicurezza, messa a rischio dalla russofobia insita nella presa di potere centrale a Kiev, da parte dei movimenti di piazza, d’ispirazione filoccidentale, ricadeva tutta, secondo la concezione di Mosca, sulla madrepatria russa. A Donetsk, kharkiv, Slovjansk, sono comparse formazioni armate, con divise del tutto identiche a quelle dei rivoltosi in azione in Crimea.
Hanno occupato i palazzi del potere, cacciando le autorità ivi costituite dal potere centrale di Kiev e vi hanno insediato i loro rappresentanti. Hanno eretto barricate nei punti nevralgici, intenzionati ad opporsi con la forza alla reazione militare del governo di Oleksandr Turchynov. La Russia già ammassava un imponente esercito alla frontiera, tale da incutere un terrore non ingiustificato alle autorità ucraine.
Interveniva la Nato, con moniti diretti a Mosca, e con il dispiegamento di ulteriori forze di aria, terra e mare, lungo tutto il territorio degli Stati dell’Europa orientale, balcanici e baltici. Il governo ucraino decideva di organizzare la rappresaglia, diretta a smantellare le barricate e ripristinare l’ordine. E’ stata varata una legge antiterrorismo, specificamente preordinata a questo scopo. Un esercito di oltre 500 militari, armati anche con blindati, è stato inviato sul terreno di scontro. Il primo impatto a Slovjansk, ha causato morti e feriti da entrambe le parti. Almeno cinque sono le vittime e decine i feriti. A Donetsk i morti sono stati quattro ed i feriti una ventina. Più tra i rivoltosi che tra gli assalitori.
In alcuni episodi di questa strana guerra fratricida, si è assistito a scene di vero e proprio abbandono, da parte dei soldati ucraini, delle armi, anche blindati, nelle mani della popolazione locale, che si opponeva disarmata all’avanzare dei carri, invocando i confratelli di riunirsi a loro nella protesta e nella ribellione, contro le intrusioni indebite degli occidentali, nei loro affari interni.
La tensione tra Mosca ed Washington è salita ai massimi livelli. La telefonata tra Putin ed Obama non ha prodotto esiti tangibili, come sempre impantanata sulle reciproche accuse. Obama ordina a Putin di ritirare le truppe ormai stanziate ai confini, minacciando il ricorso alle solite, inutili, sanzioni economiche, mentre Putin replica rimandando al mittente le accuse sulle responsabilità della crisi. In particolare, il presidente russo, va diffondendo allarmi e mette in guardia, su un possibile bagno di sangue in seguito alla repressione ormai in atto, che lo costringerebbe ad intervenire con la forza militare del suo esercito, ormai pronto sulla linea che delimita le due frontiere. Inoltre esige il pagamento, da parte del governo rivoluzionario instauratosi a Kiev, degli oltre 2,2 miliardi di euro dovuti alla Russia, per arretrati nel pagamento delle rate scadute, per l’uso del gas erogato dalla Gazprom, i cui parametri sono stati modificati al rialzo, in seguito alla cacciata violenta di Yanukovich da parte dei rivoltosi.
Viene però garantito lo svolgimento del vertice di Ginevra, tra USA Europa, Ucraina e Russia, per cercare di dirimere la questione scottante della crisi ucraina, previsto per il 17 Aprile. Il giorno prima di questo incontro, Putin, in un discorso alla nazione, ormai rituale alla vigilia della Pasqua ortodossa, sulla situazione difficile e delicata in Ucraina, dichiara senza mezzi termini, di non voler intervenire con l’esercito a meno che non vi sia costretto, a seguito di eventi dolorosi e sanguinari, conseguenti alla repressione intrapresa da Kiev nelle regioni orientali del Donetsk.
Il summit di Ginevra, si è svolto e concluso con la firma di un trattato, con cui si conviene della necessità di disarmare le bande ribelli e procedere alla de-escalation della violenza in tutto il territorio nazionale ucraino e ad una riforma costituzionale che dia garanzie di sicurezza ad entrambe le parti del conflitto. Ma gli insorti filorussi hanno, da subito, respinto tutte le clausole di questo accordo e rifiutato di deporre le armi. Non sentendosene obbligati e garanti in quanto non firmatari dello stesso. Inoltre, essi affermano che anche coloro che hanno preso il potere con la forza a Kiev dovrebbero essere considerati guerriglieri da disarmare.
Rivendicano, inoltre, il diritto ad un referendum sul destino politico della loro regione. Invocano il diritto a decidere se stare con l’Ucraina o la Russia. Oggi, nonostante le festività pasquali, le cronache riportano notizie di altri scontri a fuoco in corso a Slovjansk, con morti e feriti. I filorussi chiedono a Putin l’invio di truppe come osservatori. Ne è seguito l’ennesimo scambio di accuse tra Putin ed Obama, su questo punto specifico dell’esecuzione del contenuto degli accordi firmati a Ginevra. Obama accusa Putin di non voler rispettare i patti e questi oppone che i patti impegnano tutte le parti in causa, non solo una.
In particolare sullo scioglimento delle organizzazioni di rivoltosi e terroristi accampati ancora a Maidan, gli USA non sono disposti a ragionare. Il gioco si fa sempre più duro e somiglia ad un dialogo tra sordi. Tutti sono pienamente consapevoli del fatto che non si tratta solo di misere questioni economiche che si agitano sul tavolo del più grave e controverso affare che impegna la diplomazia mondiale, dal dopoguerra ad oggi, ma dell’interesse geostrategico militare fondamentale, su cui le grandi potenze mondiali sono chiamate a scontrarsi più che confrontarsi.

Si trattasse solo di questioni economiche i problemi sarebbero stati, come sempre, sollecitamente, affrontati e risolti. Questa non è una questione di soldi ma di sopravvivenza. Di vita o di morte. Prima o poi doveva accadere. Russia e USA, vincitori dell’ultimo conflitto mondiale, le sole grandi superpotenze nucleari, sono arrivate al muso contro muso. Cioè là, dove il destino umano, di cui sono prigioniere, fatalmente, le spinge.